lunedì 24 settembre 2018

Matteo Otis


Matteo Otis, mago di seconda classe, sistemò gli occhiali sul naso e controllò l’insegna del parco. Era una vecchia targa di latta, scolorita dalle intemperie. Poiché il nome del parco era esatto, Matteo Otis ripose il taccuino nella valigetta ventiquattrore e tirò fuori una lunga chiave d’argento.
Il cancello del parco era chiuso a quell’ora di notte. Antiche inferriate in parte arrugginite ne circondavano l’intero perimetro alternandosi ai muri delle case attigue. I lunghi rami degli alberi sporgevano attraverso le sbarre come tante dita ossute e pallide.
Matteo Otis inserì la chiave nella serratura e la girò tre volte e mezzo in senso antiorario. Il cancello si aprì, gemendo sui vecchi cardini. I lampioni della strada illuminarono un vialetto coperto di ciottoli e foglie morte che s’inoltrava all’interno del parco perdendosi nell’oscurità.
Matteo Otis estrasse un astuccio di legno, bisbigliò alcune parole sul coperchio intarsiato e lo dischiuse. Un fuoco fatuo, minuscolo e splendente, si librò a pochi centimetri dal naso del mago. Era una microscopica sfera luminosa.
“Fammi strada” ordinò il mago.
Il fuoco fatuo disegnò un paio di cerchi nell’aria e si avviò, ronzando come una mosca, lungo il viale acciottolato. Matteo Otis lo guardò qualche istante incerto. Poi, inspirando profondamente, lo seguì.
Alberi secolari si stagliavano lungo il viale principale del parco protendendo i lunghi rami. Le radici nodose avevano da tempo invaso il perimetro del selciato che si distingueva appena, coperto com’era dalle erbacce e dal fogliame marcio. Il viale, secondo le informazioni che il mago aveva raccolto, saliva con ampie curve un leggero declivio in cima al quale, ben nascosta, era stata costruita una villa adesso abbandonata. Tutt’attorno alla villa, in quella che era una volta la tenuta signorile, s’alternavano alberi e prati inframezzati da siepi incolte e scalinate in pietra serena che il tempo aveva in buona parte usurato.
Secondo quanto avevano scritto alcuni giornali, la villa apparteneva adesso a una società d’investimenti. La società in questione l’aveva comprata con l’intento di realizzare un albergo di lusso. Il progetto però era stato rapidamente abbandonato, nessuno sapeva perché.
La tenuta della villa invece era stata trasformata in un parco monumentale. Negli ultimi anni il parco era poco frequentato sebbene l’ingresso fosse libero e vi si potesse godere d’impareggiabili scorci di Firenze. Ufficialmente la colpa era stata attribuita all’incuria dovuta alla mancanza di fondi. Secondo i giornali, tuttavia, la polizia riceveva da un po’ di tempo a questa parte segnalazioni di persone che, entrate del parco, scomparivano senza lasciar traccia.
Nel parco completamente buio, solamente il debole chiarore del fuoco fatuo illuminava i passi di Matteo Otis. La piccola sfera luminescente svolazzava eccitata, attirata dalla poderosa forza magica che percepiva tra quegli alberi, guidando il mago che procedeva svelto per il vialetto principale. Le scarpe di cuoio nero di Matteo Otis urtavano di tanto in tanto una pietra o un’erbaccia, facendolo incespicare. L’impermeabile svolazzava leggero attorno all’esile corpo, nascondendolo in quell’umida notte di fine estate.
Dopo un’ampia curva, il fuoco fatuo abbandonò il vialetto principale e s’inoltrò per un sentiero che tagliava in mezzo a un gruppo di querce. Matteo Otis lo seguì. Quando il sentiero iniziò a inerpicarsi su per la collina, un fruscio tra gli alberi fece sobbalzare il mago. Con un gesto circolare della mano, Matteo Otis indirizzò il fuoco fatuo alla sua destra. La manica dell’impermeabile svolazzò nell’oscurità come uno spettro. Da quel lato il terreno formava una sorta di terrazzo dove cresceva un grande olmo. Il fuoco fatuo smise d’avanzare e roteò agilmente attorno al fusto e ai rami dell’albero. La corteccia, grigia, era solcata da ampie fenditure. Il tronco, con le radici ben piantate a terra, si divideva in due robusti rami che salivano alti verso il cielo. La chioma era larga e ampia.
Le foglie lucide dell’olmo scintillarono e si agitarono alla luce del fuoco fatuo. Poi, come un unico sciame, decine di falene si staccarono dai rami, dilatandosi in un’ampia nube davanti al mago esterrefatto. Avevano ali color ruggine e argento.
Matteo Otis alzò una mano, distese le dita e pronunciò una parola antica. Una a una le falene presero fuoco come tanti pezzetti di carta. La fiammata illuminò per un istante il volto del mago, ne evidenziò le più minute rughe e gli occhi dilatati, lambì in parte i lunghi capelli corvini. Quindi la fiamma scomparve, lasciandosi dietro un acre odore di bruciato.
Il fumo penetrò nelle narici di Matteo Otis. Le ceneri volteggiarono per aria come un fitto nevischio. Colpi di tosse scossero violentemente l’esile corpo del mago che cadde in ginocchio in mezzo al fogliame marcio.

“Tanto valeva farmi accompagnare da una banda di gnomi ubriachi” biascicò irritato.

Quando finalmente riuscì a stare nuovamente in piedi, Matteo Otis s’accorse che il fuoco fatuo era volato via. Lo cercò tra gli alberi e le siepi senza successo dovendo infine rassegnarsi ad aver perso la sua unica guida. Attraverso i rami degli alberi poteva però scorgere il cielo stellato. Tra le stelle splendeva adesso la luna, tonda e corposa come non l’aveva mai vista prima.
Seguendo il sentiero, Matteo Otis arrivò dopo pochi minuti in un piazzale coperto di ghiaia ed erbacce. A ridosso del piazzale, sul lato opposto a dove si trovava, una larga scalinata in pietra serena portava all’ingresso principale di una grande abitazione signorile. Le porte dell’edificio erano sbarrate con pesanti assi di legno. Le finestre avevano le imposte chiuse con lucchetti. Il legno era marcio e la vernice scrostata.
Ai piedi della scalinata, al centro del piazzale, c’era uno stagno di forma circolare. La luna brillava alta nel cielo riflettendosi sulle sue acque immobili. Ciuffi di gramigna ed alte erbacce crescevano tra le pietre incastonate attorno all’acqua che rimaneva ferma come se fosse stata dipinta. Il cielo notturno ne colorava la superficie di un blu intenso, dando al mago l’impressione di guardare in uno specchio.

“Che posto insolito” pensò il mago chinandosi sull’acqua e guardando la propria immagine riflessa. Mescolato al canto notturno dei grilli distingueva adesso il salmodiare lento e ritmato di una fanciulla sussurrargli parole indolenti e sciocche:

Sul ramo penzola la foglia,
non ha voglia, non ha voglia
di volare come la farfalla,
tutta gialla, tutta gialla,
e così fa una piroetta,
senza fretta, senza fretta,
e si lascia trasportar dal vento
sonnolento, sonnolento.

Matteo Otis sentì gli occhi chiudersi. Una spossatezza improvvisa lo pervase dalla testa ai piedi. Chino sul bordo dello stagno, cadde in ginocchio e iniziò a piegarsi in avanti come un giunco. Quando col naso toccò l’acqua, una mano uscì dallo stagno e l’afferrò per il collo. Dita oblunghe e pallide si strinsero con forza attorno alla gola del mago e lo tirarono in acqua.
Matteo Otis cadde nello stagno con un tonfo. Annaspò. Le gambe s’impigliarono in un groviglio di fili lunghi e sottili. Sprofondò sott’acqua e, tra la melma agitata del fondale, distinse nettamente l’esile figura di una fata. I capelli della fata s’annodavano e s’intrecciavano in una fitta rete. Le vesti sbiadite ricoprivano il fondale. Tra i lembi delle vesti facevano capolino i corpi senza vita di chi, morto annegato, fissava adesso con occhi vacui Matteo Otis.
La fata aveva smesso di cantare. Con una bacchetta di legno rimestava l’acqua dello stagno creando vortici e mulinelli che travolsero il mago trascinandolo verso il fondo. Matteo Otis sentì l’aria mancare. In un impeto disperato, si lasciò trasportare dai flutti, allungò le mani e afferrò la bacchetta.
Il mago e la fata tirarono la bacchetta con tutte le loro forze, cercando di strapparsela a vicenda. L’acqua ribolliva attorno ai due contendenti creando grandi onde che si riversavano al di fuori dello stagno. All’improvviso la fata lanciò un grido simile al lamento di un gatto e ritrasse le mani. I palmi erano scavati da profonde ustioni. La fata guardò il mago stupita con in suoi grandi occhi verdi. Poi, simile a un’ombra, fuggì via travolgendo Matteo Otis con un’ultima grande ondata.
Il corpo di Matteo Otis fu ritrovato la mattina seguente dal custode del parco. Le gambe spuntavano dallo stagno come due canne sbilenche in mezzo a un gruppo di ninfee. La testa era ben piantata nella melma e fu necessario l’intervento di più uomini per sbarbare il corpo dal fondale. Tra le mani, il mago stringeva ancora la bacchetta di legno.
Assieme al corpo di Matteo Otis, sul fondo dello stagno vennero ritrovati anche gli altri cadaveri. La polizia riuscì a identificare ben sei altre persone, ricollegandole alle denunce di scomparsi e archiviando così gli episodi legati al parco. Tuttavia, nella confusione che seguì, tra giornalisti e curiosi accalcati attorno allo stagno, furono trafugati alcuni oggetti. Lo stagno venne transennato e il parco chiuso a tempo indeterminato.
La bacchetta della fata comparve il giorno successivo nel negozio di un rigattiere in centro a Firenze. Una delle estremità della bacchetta disegnava un occhiello. Nell’occhiello era inserita una minuscola pietra rossa. Certo che si trattasse di una gemma preziosa, il rigattiere la sistemò in una vetrinetta un po’ sudicia accanto a una vecchia chiave d’argento e ad altri monili di dubbia provenienza.
Nella luce pomeridiana del negozio la pietra rossa brillò per un attimo, riflettendosi nel vetro della porta d’ingresso che in quel momento si apriva. Un grappolo di campanelli d’ottone trillò. Il rigattiere chiuse la vetrina e, tornato dietro il bancone, s’apprestò ad accogliere un altro cliente.


Nessun commento:

Posta un commento