mercoledì 1 agosto 2018

Antonio Pavesi


Antonio Pavesi aveva quasi duecento anni e neppure una ruga. A chi lo guardava passeggiare per la campagna, all’imbrunire, poteva sembrare un uomo qualunque. Solo un acuto osservatore avrebbe notato nel suo aspetto i tratti tipici del vampiro affamato: la carnagione esangue che trapelava da sotto il loden abbottonato, le venature scarlatte nei bulbi oculari che roteavano rapidi, l’incedere felpato tipico del predatore.
La palazzina in cui abitava Antonio Pavesi era molto antica, aveva un’ampia porta d’ingresso che si apriva su un vialetto alberato e una piccola torre dalla quale si vedevano le colline circostanti. La cantina invece era buia e ingombra di botti piene di sangue. Quella scorta permetteva al vampiro di sopravvivere nei momenti di magra, in quelle notti tristi e buie in cui nessuno osava avventurarsi per la campagna disabitata.
Il bosco che circondava la casa era poco frequentato. I bracconieri vi si davano ogni tanto alla caccia di frodo. Di rado arrivava anche qualche pensionato che partito nottetempo in cerca di funghi, finiva col trovare una morte non meno sapida. Il vampiro infatti agiva sempre col massimo garbo riservando alle sue vittime, ai suoi “amici” come amava chiamarli, il miglior trattamento che un vampiro potesse offrire. Non senza prima essersi educatamente presentato.
“Antonio Pavesi al Vostro servizio” diceva, esibendosi in un inchino degno dei migliori salotti della belle époque. Il finale per il malcapitato era ovviamente sempre lo stesso.
Così l’agenzia immobiliare Manetti aveva ricevuto una lettera scritta nella bella calligrafia di un’epoca ormai andata. La corrispondenza aveva continuato e infine un impiegato, tale Matteo B., si era presentato a casa del vampiro il diciassette settembre, esattamente al calar del sole.
Matteo B. era arrivato a bordo della sua cinquecento non proprio nuova. L’incontro con Antonio Pavesi era stato breve.
“Carissimo Matteo, accomodateVi” aveva detto il vampiro.
Matteo B. si era dunque accomodato in un piccolo salotto al piano terra, illuminato a stento dalla luce di due candele. Aveva guardato Antonio Pavesi sorridergli amichevolmente. Lo scintillio dei denti aguzzi del vampiro non aveva che acuito il senso di disagio da cui era stato colto avvicinandosi in macchina a quell’antico edificio sperduto nella campagna. 
Poi il vampiro aveva offerto all’impiegato un bicchiere di delicato vino rosso. Egli stesso se n’era versato un calice, ma da un’altra bottiglia e a Matteo era parso decisamente più denso e corposo.
“Non Vi annoierò a lungo” aveva quindi ripreso Antonio Pavesi, dando nuovamente del Voi a Matteo. L’ignaro impiegato non aveva potuto fare a meno di concentrare la sua attenzione su quel particolare. Per quanto bizzarro, quel vezzo gli era parso decisamente in tono alle maniere dell’ospite.
“Desidero traslocare al più presto in città” aveva continuato il vampiro. “La vita di campagna è diventata così monotona. Vorrei conoscere nuove persone, fare nuove amicizie...”
All’impiegato era sfuggito il senso esatto delle parole di Antonio Pavesi  e si era limitato ad annuire.
Un buio scantinato era stato trovato  a Firenze, in pieno centro. Il trasloco era stato organizzato una notte di novembre in tutta fretta. Un camioncino aveva trasportato le suppellettili più care al vampiro, tra cui  una cassa da morto e qualche sacco di terra sottratta al vicino camposanto che l’operaio ingaggiato dall’agenzia immobiliare aveva spalato, non senza imprecare contro le eccentricità dei ricchi e potenti.
Antonio Pavesi dal canto suo non aveva badato a spese e aveva lautamente ricompensato l’operaio, tacitandone ogni rimostranza. Si era poi ritirato nel suo nuovo appartamento perché era ormai quasi l’alba. 
Il sole era sorto su Firenze inaugurando suo malgrado una stagione di macabri delitti. 
Il primo a sparire era stato proprio Matteo B. di cui nessuno all’agenzia immobiliare aveva avuto più notizie. A nulla erano valse le ricerche. L’impiegato era risultato irreperibile e licenziato senza troppi rimpianti.
In pochi giorni erano poi scomparsi un paio di turisti americani, probabilmente ubriachi, la commessa di un discount aperto fin a tardi e un anziano prelato che s’apprestava a rincasare dopo aver letto compieta in duomo. 
Un tassista giurò d’aver accompagnato un signore eccentrico, impaludato in un vecchio loden, proprio nel luogo dove era stato ritrovato il corpo esangue di una delle vittime. Alcuni testimoni riferirono a più riprese d’aver visto un enorme cane, o forse un lupo, aggirarsi in piena notte per le vie del centro.
Le sparizioni e le morti sospette si erano quindi susseguite nei mesi successivi a ritmo sempre più incalzante, riempiendo le pagine di cronaca dei giornali e mettendo in allarme la polizia che aveva avviato un’indagine formale.
A metà gennaio, tuttavia, la serie di crimini era stata interrotta bruscamente.
Un paio di settimane dopo l’ultimo omicidio, Matteo B. era ricomparso davanti agli uffici della Questura, palesemente fuori di sé. Sporco e dimesso come un vagabondo, l’impiegato aveva continuato a farfugliare strane storie sui vampiri per poi infine confessare agli agenti, che cercavano di tenerlo fermo, di averne addirittura ucciso uno.
“Mi  teneva prigioniero” aveva dichiarato piagnucolando Matteo B., prima di perdere i sensi.
La polizia era arrivata a casa di Antonio Pavesi poche ore dopo, seguendo le indicazioni dell’impiegato. Gli agenti avevano sfondato la porta, ma non avevano trovato un bel niente a parte qualche mobile tarlato e un mucchietto di cenere sul pavimento. Ciò nonostante, Matteo B. era stato fermato in Questura e interrogato.
L’ispettore Bernabei aveva ascoltato Matteo B. con aria annoiata, seduto nella scomoda poltrona in similpelle del suo ufficio. Non aveva però fatto caso al volto livido dell’impiegato, né ai due profondi tagli alla base del collo.  Così, quando il magistrato era arrivato la sera stessa per procedere all’interrogatorio, gli agenti avevano trovato la stanza vuota e la finestra spalancata, come se Matteo B. fosse scappato volandosene via dal terzo piano. Ma ciò era parso a tutti impossibile.
Nessuno quindi fece caso al camioncino che, sul finire di febbraio, lasciò al tramonto la città, carico di pochi oggetti e di una cassa da morto nuova di zecca. Nessuno sospettò del fatto che, in un’antica palazzina di campagna, fosse appena arrivato un altro inquilino e che i boschi e i declivi che circondavano l’edificio potessero essere nuovamente meno sicuri. I macabri episodi furono invece rapidamente archiviati, complice anche la buona stagione che già stava arrivando.
Il tempo migliorò nel giro di alcune settimane. Il sole di marzo spazzò via i brutti ricordi invernali e le giornate si allungarono poco a poco, regalando a Firenze un’altra splendida primavera. 
Anche l’estate fu calda e piacevole. 
Verso settembre l’agenzia immobiliare Manetti ricevette per la seconda volta in quell’anno una lettera. Era una lettera scritta a mano, con caratteri minuti e nervosi, di un tale che si diceva impaziente di trasferire il proprio domicilio a Firenze. Per quanto bizzarra, la lettera non suscitò alcun sospetto. L’impiegato dell’agenzia, un giovanotto da poco assunto, lesse invece la missiva un paio di volte senza batter ciglio. Poi, prima di rispondere, chiuse la finestra dell’ufficio e rabbrividì.
“Sta per arrivare un altro gelido inverno”, mormorò tra sé. E si spicciò a rispondere.

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