sabato 21 luglio 2018

Il Barone Antinori


Un gatto nero spiava fuori dalla finestra il parco circostante. La luna brillava tonda in cielo. Il suo chiarore penetrava dai vetri piombati e illuminava un salotto ben arredato, con divani alla moda di Luigi XIV e un gran camino. Sopra il camino era stato appeso il ritratto di un gentiluomo distinto, dai folti baffi. Altri dipinti decoravano le pareti insieme ad antiche maioliche e tendaggi pieni di polvere e dall’aria dimessa. Un grande lampadario pendeva dal soffitto con le sue lampade tutte fulminate e i cristalli un po’ sporchi che luccicavano alla luna. Solo un angolo del salotto rimaneva in ombra.
Nell’angolo più buio della stanza, il barone Antinori sedeva in poltrona. Gli occhi fissi e iniettati di sangue, il naso sporgente come la vela di una nave, rifletteva. La sua antica magione, con l’acclusa tenuta di famiglia, era stata venduta all’asta per pochi spicci e lui non aveva potuto impedirlo. Ufficialmente il barone Antinori era morto da diversi lustri. Nessuno però sapeva che il gentiluomo, nato il 17 marzo 1861 mentre l’Italia festeggiava la sospirata unità, era ancora vivo e vegeto. Anche se, nel suo particolare caso, non si poteva parlare propriamente di vita. Il barone Antinori infatti era un vampiro.
Con fare distratto, il vampiro portò alle labbra un calice di vino rosso. La bottiglia di vino, aperta di nascosto dalla domestica poche ore prima, apparteneva alla collezione di famiglia, ma il barone non riusciva a gustarne il pregiato succo. La nuova proprietaria del castello, la signorina Miranda Bloom, era arrivata quella mattina a bordo della sua limousine bianca, con al seguito tre labrador, sei valigie piene di vestiti, dieci eleganti cappelli e, appunto, una domestica. Quando il barone Antinori, al tramontar del sole, era uscito dalla cripta come d’abitudine, aveva trovato l’antico maniero messo a soqquadro e la cantina completamente saccheggiata.
Nella penombra del salotto, il vampiro fremette di stizza. La vecchia armeria del castello era stata trasformata in un guardaroba per signore discinte. Dai ganci adesso pendevano corsetti e calze dai colori sgargianti. Il barone aveva ritrovato le nobili spade e spingarde ammucchiate in un ripostiglio per le scope. Per di più, un’antica armatura cinquecentesca, regalo a quanto si diceva dello stesso imperatore Carlo V, era stata installata nel cortile, alla mercé di ladri e intemperie,  per spaventare i gatti selvatici che frequentavano da un po’ di tempo la proprietà abbandonata. Il barone aveva cercato di trascinare la gloriosa armatura al proprio posto, ma nell’atrio d’ingresso la domestica gli aveva aizzato contro i cani credendolo un ladro. Così al vampiro non era rimasto che battere la ritirata, fuggendo in volo attraverso il lucernario.
Nel piccolo salotto illuminato appena dalla luna il barone Antinori sbuffò incollerito, facendo sobbalzare sul davanzale il gatto che arruffò il pelo. Poi, con una spazzola, lucidò gli aguzzi canini, risolvendosi infine a porre termine allo scempio quella notte stessa. Durante l’intera giornata, un manipolo di operai aveva riempito buona parte delle stanze del castello di moderni ammennicoli in plastica, lampade alogene, poltrone cubiche, vasi etnici, stuoie, specchi e  piante sintetiche che diversi camion avevano portato facendo su e giù per il viale d’ingresso. Un enorme acquario, nel quale fluttuavano pesci dall’aria annoiata, era stato posizionato nel salone principale.
La vecchia pendola, i cui rintocchi ogni sera annunciavano teatralmente la mezzanotte, era stata invece venduta a un rigattiere per pochi soldi, ma questo il barone Antinori ancora non lo sapeva per cui era ormai quasi l’alba quando, seguendo i propri ragionamenti, era uscito dal salotto senza troppa fretta. 
I lunghi canini del vampiro scintillarono pericolosi nella penombra. Il barone percorse un lungo corridoio librandosi a mezz’aria, con il mantello che sventolava tetro e le punte delle scarpe, lucide e nere, che sfioravano appena i marmi del pavimento. Si fermò davanti a un grande portale di legno. In quella stanza, appartenuta un tempo alla prozia Abelarda, dormiva adesso Miranda.
A un gesto del vampiro, i battenti si spalancarono. Il barone entrò, volteggiando come un enorme pipistrello. I drappi setosi del letto a baldacchino si scostarono lentamente. Tra le lenzuola giaceva Miranda, addormentata. Il vampiro planò lentamente sul collo bianco della ragazza, pronto ad affondare i denti acuminati. Stava per compiere l’orrendo misfatto quando invece si fermò e osservò la fanciulla, ammaliato. La luna le illuminava il volto candido e i capelli dorati. Le labbra, leggermente socchiuse, erano rosse e fresche come ciliegie appena colte.
Il barone Antinori rimase a contemplare Miranda lungamente, senza accorgersi che il cielo iniziava a schiarirsi all’orizzonte e, sui prati e gli alberi, si posavano le prime gocce di rugiada. Si riscosse solo più tardi quando nel pollaio il gallo iniziò a cantare, ma in quel momento un raggio di sole lo trafisse fedifrago in pieno petto, incenerendolo. Del barone Antinori rimase solo un mucchietto di cenere.
Le ceneri furono raccolte dalla domestica, la mattina seguente, che le gettò giù dal davanzale insieme a qualche cartaccia, perché era troppo pigra per scendere abbasso. Qualche mese dopo, sotto la finestra nacque una pianta di rose che si arrampicò lungo il muro. A maggio poi fiorì. Un’unica rosa di un rosso intenso spuntò sul davanzale di Miranda, senza spine. Una bella mattina piena di sole, Miranda la colse e la posò delicatamente tra i capelli, come ornamento. Per qualche istante, il vago ricordo di una notte invernale svolazzò leggero tra i pensieri della fanciulla, poi sbiadì e scomparve. E dopo qualche giorno anche la rosa pian piano appassì, perdendo tutti i petali.

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